29 settembre 2009
Insultante, scandaloso e risibile. E’ così che bisognerebbe descrivere il "pasticcio" della missione statunitense di George Mitchell in Medio Oriente, il cui tentativo di mutare la posizione di Israele sugli insediamenti ebraici è stato bruscamente interrotto la settimana scorsa. Mitchell ha lasciato, a mani vuote, la regione tra lo sconcerto e l’indignazione dei palestinesi.
La missione di Mitchell era destinata a fallire sin dall’inizio. I palestinesi avevano insistito (e a ragione) che Israele onorasse gli impegni presi – secondo la road map, poi di nuovo ad Annapolis, e così come stipulati dal Quartetto – di congelare ogni attività relativa agli insediamenti nei Territori occupati, inclusa la "crescita naturale". Legalmente parlando, tale congelamento deve comprendere anche Gerusalemme Est.
Nessun governo israeliano – che fosse guidato dal Likud, dai Laburisti o da Kadima – ha mai osservato tali condizioni, e negli ultimi anni il tasso di espansione degli insediamenti si è impennato a dispetto di qualsiasi accordo raggiunto tra Israele e l’Autorità Palestinese con la mediazione statunitense.
Lungo tutto l’arco parlamentare israeliano c’è sempre stata, storicamente, una inclinazione ad espandere gli insediamenti o a crearne di nuovi. Le eventuali differenze sono in genere sui luoghi prescelti, sugli scopi, sulla fattibilità e sul futuro di questi avamposti. Su Gerusalemme Est c’è accordo completo sul fatto che essa non è territorio occupato, sicché gli edifici ebraici costruiti laggiù non sono insediamenti.
Ne consegue che ci sono oltre 300.000 coloni ebrei che vivono in Cisgiordania, su terra palestinese confiscata. Se si aggiunge Gerusalemme Est, il numero complessivo sale a quasi mezzo milione. La situazione in Cisgiordania è dunque differente dal Sinai e dalla Striscia di Gaza, dove i coloni erano al massimo poche migliaia. E’ molto difficile, se non impossibile, pensare che un primo ministro israeliano possa rinunciare al potere e al consenso popolare evacuando decine di migliaia di coloni dalla Cisgiordania, e demolendo le loro case.
Si sa che gli insediamenti sono illegali, perché sono edificati su un territorio preso con la forza. Ma sin dalla guerra del 1967, la crescita degli insediamenti in Cisgiordania – che fossero autorizzati dal governo o meno – è stata fenomenale. Israele ha cambiato la conformazione fisica, demografica, economica e politica di questa regione in modo tale che è ormai pressoché impossibile raggiungere il traguardo di costruire uno stato palestinese indipendente, sostenibile e territorialmente contiguo in quei luoghi.
Da un punto di vista giuridico, gli insediamenti non sarebbero mai dovuti diventare oggetto di negoziati. Israele è in palese violazione delle leggi internazionali, delle Convenzioni di Ginevra e di numerose risoluzioni ONU, a causa di tali insediamenti costruiti sulla terra palestinese. Ma i rappresentanti di Israele dichiarano che la Cisgiordania è in realtà territorio conteso; che non è mai appartenuto a uno stato sovrano. Questa argomentazione è stata tuttavia contraddetta, fra l’altro, dalla Corte internazionale di giustizia e dalle "Alte Parti Contraenti" (i rappresentanti degli Stati che hanno ratificato il trattato (N.d.T.) ) della Quarta Convenzione di Ginevra.
Tuttavia, nonostante il massiccio sostegno garantito dalla comunità internazionale in favore dei diritti dei palestinesi, il fatto che le grandi potenze non si siano mai attivate per costringere Israele a desistere da tali attività illegali nei territori occupati ha dato mano libera a questo Stato usurpatore. Dal 1967 a oggi, Israele non è mai stato penalizzato per le sue violazioni contro i palestinesi e la loro terra, grazie al veto automatico degli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e alla collusione dell’Europa.
L’obiettivo dichiarato della ripresa dei negoziati israelo-palestinesi è la creazione di una Palestina indipendente basata sulla soluzione dei due stati. Un certo numero di questioni attende i negoziatori: la sorte degli insediamenti, i profughi, Gerusalemme Est, e altre ancora. Rifiutandosi di accordarsi sugli insediamenti e insistendo col dire che il futuro di Gerusalemme non è negoziabile, Israele ha buttato giù due dei tre pilastri principali su cui si basa il dialogo per la pace. Il terzo, i rifugiati, sta per cadere anch’esso. Affermando che gli arabi devono riconoscere Israele come "stato ebraico", il destino del diritto al ritorno per milioni di rifugiati palestinesi, così irrealistico come sembra oggi, è ormai segnato.
Sulla base di questi fatti, non possiamo fare a meno di chiederci di cosa parleranno i negoziatori, se mai accadrà che i negoziati vengano ripresi. Il governo di Benjamin Netanyahu non s’è mai impegnato a favore della soluzione a due stati. Anzi, la coalizione di governo crollerebbe se Netanyahu andasse avanti e forzasse una qualsiasi forma di congelamento sulle attività insediative, o accettasse di includere Gerusalemme nell’ordine del giorno delle trattative.
Le azioni del governo israeliano rivelano le sue reali trame. Mentre Mitchell stava preparando il suo viaggio in Israele, Netanyahu e il suo ministro della difesa Ehud Barak hanno dato il via libera ai piani per la costruzione di 455 nuove unità abitative a Gerusalemme e dintorni, oltre alle 2.500 già approvate. La motivazione è che queste nuove abitazioni saranno costruite in insediamenti nei pressi di Gerusalemme e lungo la Linea Verde, territori che in ogni caso Israele non abbandonerà neppure se dovesse raggiungere un accordo di pace con i palestinesi.
I coloni son divenuti una forza politica che nessun politico israeliano può permettersi di ignorare. La cosa ironica è che il loro numero e quello degli insediamenti è cresciuto, insieme alla loro influenza, a ritmi forsennati proprio a ridosso della firma degli Accordi di Oslo. Non c’è mai stata la volontà, da parte dei successivi governi, di lasciar perdere le attività insediative.
Israele ha già preso le sue decisioni riguardo a gran parte delle questioni relative al cosiddetto stadio finale dei negoziati, ed è poco probabile che il tentativo statunitense di dar nuova vita al processo di pace dia qualche frutto. Giacché l’America non è propensa a rischiare le ripercussioni di uno scontro con i leader israeliani sugli "ostacoli alla pace", i palestinesi, che sono sempre la parte più debole, dovranno offrire compromessi. Per loro questo gioco è divenuto un "gioco a somma zero".
Il futuro dei colloqui di pace appare oscuro, dunque, e allorché il Presidente Obama tenterà di affrontare tale questione spinosa e sfuggente, farebbe bene ad avviare una revisione profonda delle ragioni che stanno dietro alla politica fraudolenta del suo Paese nel rapporto col conflitto arabo-israeliano (una politica protrattasi per decenni), a incominciare dal mancato stop all’avanzamento della sistematica colonizzazione delle terre palestinesi. Anche per Washington il processo di pace è diventato un "gioco a somma zero". Tuttavia, anche se Israele crede di poter sostenere tutto e il contrario di tutto fintanto che si tratta del futuro dei Territori occupati, il mancato raggiungimento di una pace reale e credibile con i palestinesi minaccerà sempre la sua esistenza.
Osama Al-Sharif è un giornalista e politologo residente ad Amman
Articolo originale:
http://www.arabnews.com/?page=7§ion=0&article=126648&d=2 3&m=9&y=2009
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